La Tartaruga Rossa – Raccontare il silenzio
“La Tartaruga Rossa”, ultima fatica del Premio Oscar Michaël Dudok de Wit, è nelle sale fino al 29 marzo. Un film d’animazione poetico e dalla bellezza struggente, con alle spalle un produttore d’eccezione: lo Studio Ghibli.
Michaël Dudok de Wit, animatore Premio Oscar nel 2001, arriva nelle sale italiane col suo primo lungometraggio: “La Tartaruga Rossa”. Quest’interessante lavoro, prodotto dallo Studio Ghibli, è stato acclamato in tutto il mondo e candidato come Miglior film d’animazione agli scorsi Academy Awards. Mantenendo il suo caratteristico tratto, che gioca molto sull’utilizzo dei colori e sulla spazialità offerta dai giochi di luce, De Wit racconta la sua magica avventura avvalendosi (quasi) solamente d’immagini e musica.
Il film, di fatto privo di dialoghi, ha il suo punto di forza nel comparto artistico: l’animazione, seppur concettualmente lontana da quella giapponese, gode comunque di quella fragilità e leggerezza d’insieme che hanno fatto le fortune dello Studio Ghibli. In particolare, spicca la profondità narrativa conferita alle immagini, che tra simbolismi e metafore di varia natura evidenzia quella “narrazione silenziosa” di cui i nipponici sono diventati maestri nel corso degli anni.
“La Tartaruga Rossa” si apre con una tempesta: un uomo rimane vittima delle onde e si ritrova vivo per miracolo su un’isola deserta. Per fortuna ci sono una ricca vegetazione e l’essenziale per sopravvivere. Nonostante i vari tentativi di rimettersi in mare costruendo una zattera, qualcosa va sempre storto e si ritrova ancora una volta al punto di partenza. Con la frustrazione che continua ad aumentare, restare lucidi sembra ormai impossibile.
L’artefice dei suoi continui fallimenti si palesa poi dinanzi a lui: una tartaruga rossa, che non vuole saperne di lasciarlo andare. Uno sfogo dettato dalla rabbia si tramuta presto nell’incipit di un emozionante racconto sulla ciclicità della vita e sull’amore. Andarsene non è più una priorità: forse si può trovare un nuovo scopo, un punto da cui ripartire.
Non è tanto la trama a farla da padrone, quanto la forte espressività delle scene che si succedono durante la visione. La ricchezza di dettagli rende quasi la sensazione di guardare dei quadri in movimento: dei frame suggestivi, che lasciano a bocca aperta. Per raggiungere un tale risultato ci sono voluti 10 anni di lavorazione, in cui lo stesso Dudok de Wit ha vissuto nelle Seychelles minori studiando e fotografando i territori da cui l’opera ha poi preso ispirazione. Uomo e natura, terra e mare… c’è un continuo dualismo, visivo e simbolico, che trova la sua massima espressione nella contrapposizione tra giorno e notte.
Durante il giorno, la luce del sole è come un pennello che tinge di chiaro ogni anfratto illuminato: il momento che più di ogni altro è utile a rappresentare la realtà legata all’agire e al pensare. Di notte, invece, i colori sfumano verso il grigio sotto la tenue luce della luna: i prati verdi sembrano spegnersi sotto le stelle, l’acqua diventa uno scuro abisso all’apparenza senza fine. È allora che il sogno appare sotto forma di pensieri, ricordi e desideri che collidono fra loro e sembrano alterare la realtà stessa.
Sulle note di una colonna sonora piacevole e coinvolgente, curata da Laurent Perez Del Mar, ecco che il film acquisisce tutt’altro spessore. Se si può descrivere come tale, “La Tartaruga Rossa” è un piccolo capolavoro visivo, le cui immagini scrivono la sceneggiatura per un dialogo universale. Un’opera d’arte che si lascia raccontare, in silenzio, portando quesiti alla mente e scaldando il cuore. L’autore si prende il suo tempo, come fa il protagonista, nel distribuire i segni e le metafore durante l’arco narrativo. Un ciclo continuo, che vede la tartaruga come veicolo simbolico principale: lotta, natura, vita, morte, rinascita. Ancora e ancora, un viaggio da assaporare con calma, fra i granelli di sabbia e le onde del mare.