Watchmen: riflessi di un mondo senza eroi

Analizziamo i temi e la struttura del Watchmen targato HBO, la serie più chiacchierata dell'anno

Ci è voluto parecchio per metabolizzare l’impatto del Watchmen di Damon Lindelof, inutile negarlo. Dopo aver tentato di analizzare e carpire ogni dettaglio, lo show targato HBO ci porta a un approfondimento al quale era impossibile sottrarsi. Omaggiando l’opera originale di Alan Moore e Dave Gibbons, l’epopea televisiva che stravolge la figura del supereroe riesce quasi a superarla in ogni suo aspetto. Per questo diventa imprescindibile evidenziare l’architettura narrativa della serie, le dinamiche dietro lo sviluppo dei personaggi e la profondità che ogni soluzione narrativa riesce a raggiungere.

Un nuovo Watchmen, maturo ed evoluto, che stuzzica lo spettatore mentre il suo mondo collassa ancora una volta. Lontana da concetti distopici e – forse – calamari alieni, la rappresentazione del colosso televisivo sorprende e sconvolge mentre rimbalza fra realismo e follia, per poi raggiungere la sua apoteosi creativa quando offre spazio alla sua figura più rappresentativa.

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Indice

Watchmen – Superare un mito

All’idea di riportare sullo schermo una pietra miliare della cultura pop sarebbero in molti a impallidire. E lo stesso Lindelof, co-creatore di Lost e mente dietro The Leftovers, ha rifiutato più volte la tentazione di maneggiare una IP così delicata. Questione di tempo, o forse di maturità. Una preparazione minuziosa atta a conoscere perfettamente il materiale. C’è forse un solo modo per non offendere il messaggio, la filosofia, il credo di Moore & Gibbons: andare avanti. E questo lo showrunner lo ha capito perfettamente. Watchmen riprende infatti la sua narrazione nel 2019, centellinando i riferimenti e le citazioni, quasi celandoli all’occhio meno attento, per focalizzarsi sulla costruzione del proprio contesto. L’enfasi sull’aspetto sofferto della società odierna e del suo grigio contorno politico permette di concentrarsi sulla narrazione e sui personaggi senza tuttavia sminuire l’opera di riferimento.

Attraverso innumerevoli flashback, Lindelof scompone e ricompone la sua creatura, si diverte a tessere le fila del tempo: c’è un prima, all’apparenza fermo e immutabile, e c’è un dopo che ne dipende sempre per qualche verso, che non può fare a meno di citarlo e rimaneggiarlo. Scardinare per creare le proprie basi sembrerebbe assurdo, eppure lo show HBO mostra il suo aspetto più intrigante quando sfrutta elementi noti per raccontare la propria storia. Pur accettando di non risolvere tutti i propri dilemmi, Watchmen riesce a chiudere il proprio cerchio e a superare la propria mitologia; in un mondo di eroi che non sono “eroi”, di umani che non sono “umani”, prende forma una coraggiosa diatriba sociale sul mondo di oggi e sui pericoli che il silenzio può generare.

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La prospettiva dell’eroe

È uno scontro continuo, quello ideato da Lindelof. Un continuum perpetuo tra prospettive differenti che si arricchiscono vicendevolmente. Ogni personaggio, dall’agente Abar di Regina King all’Adrien Veidt di Jeremy Irons, mostra parti differenti della storia a seconda della propria prospettiva. Ruota tutto intorno ai protagonisti di un quadro che, puntata dopo puntata, si compone di pennellate più o meno decise scandite da rivelazioni e colpi di scena. Colori differenti in uno stesso disegno, parti di un tutto che si mescolano lentamente fino a raggiungere il climax. E sebbene la storia possa cambiare a seconda di chi racconta – basti ricordare il dedalo narrativo di The Leftovers – ogni elemento finisce per trovare il proprio posto in un’avventura emozionante e ambiziosa.

I ricorrenti temi del razzismo e dell’odio spingono la narrazione verso riflessioni difficili sul contesto attuale del mondo, ma evidenziano la mancanza di una vera prospettiva eroistica. Ed è esattamente quando la serie porta a compimento questo ragionamento che arriva il primo acuto: se anche chi crede nella giustizia combatte per paura o dolore, la “fiducia nella legge” diventa solo una scusa. La rabbia prevale, e con essa bianco e nero spariscono fra i grigi. In un oceano di maschere, tra giudici e carnefici, c’è ancora spazio per gli “eroi”?

Watchmen – Oltre la maschera, attraverso lo specchio

La realtà del Watchmen di Lindelof è frammentata e spesso inerme di fronte agli eventi, ma rispetto a quella proposta da Moore & Gibbons questo presente è un abisso di apparenze, contrasti e paure. Come i governi di oggi temono il ritorno di un’ideologia dittatoriale, l’America del presidente Robert Redford è vessata dalla rivolta delle maschere. Il simbolismo è quasi prepotente, e attraverso la maschera l’icona dell’eroe diventa presagio di terrore. La stessa figura di Rorschach è un pallido ricordo, mutata da caposaldo morale a seme dell’estremismo privo di compromessi. E nonostante l’intervento di chi positivo ha sempre cercato di esserlo, poco riesce a cambiare veramente. Lindelof dimostra che il mondo si salva, in un modo o nell’altro, quasi sempre. Ma nulla diventa migliore.

Alternando incessantemente spettacolo e intimità, lo show HBO cerca il suo spazio nella mente dello spettatore superando la gelosia di Alan Moore e l’iconografia della trasposizione di Zack Snyder, puntando i riflettori verso il concetto di potere. Watchmen mira all’introspezione, invita a guardarsi allo specchio non solo attraverso i personaggi, ma decostruendo leggende e miti del nostro tempo. Pensieri e interrogativi costanti, che portano a vedere oltre la maschera, a cercare risposte tra i riflessi. E anche quando gli Dei bistrattati e odiati da questo mondo fanno ritorno per mescolarsi di nuovo agli uomini, la speranza si confonde con la vergogna di essere rimasti gli stessi, piccoli esseri accecati dalla bramosia e dal desiderio. Forse è vero che nulla finisce e niente ha una fine, e questo gioco di maschere e di specchi sarà soltanto un altro segno.

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“Nothing ever ends”

Nel caotico contesto seriale moderno, Watchmen va dritto per la propria strada senza curarsi di fornire troppe risposte. Abituato ad essere troppo suscettibile al concetto di confusione narrativa, Lindelof cerca di rieducare lo spettatore riportando in primo piano il potere di una scrittura che stimola la mente anziché assecondarne la pigrizia. Un articolato saggio politico sull’ego e sul potere, costruito sulla figura sfuggente e irraggiungibile dell’eroe. Ma quale eroe? Fra interminabili giri di parole, dialoghi e avvenimenti, sembra quasi paradossale scoprire come il vero eroe è colui che sceglie di sacrificare tutto per la propria umanità.

L’apice di Watchmen, nella trasposizione targata HBO, si compone di pochi istanti. Un Dio entra in un bar, ordina qualcosa e si siede a raccontare la storia più importante di tutte. Ipse dixit. Forse è vero, tutte le storie finiscono in tragedia, o forse no. Il modo in cui finirà – o continuerà – non è importante, così come non è importante se è nato prima l’uovo o la gallina. Oltre il tempo e lo spazio di un universo in cui nulla finisce, oltre gli specchi e le maschere di un uomo che non cambia, c’è chi riesce a trovare la sua risposta, la sua fine. Fra i riflessi di un mondo senza eroi, “the Egg Man” ha vinto.

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