Sole Cuore Amore: quel pasticciaccio brutto di Daniele Vicari.
Daniele Vicari firma un guazzabuglio indigesto, dimenticando che il Cinema, in quanto Arte, dovrebbe emozionare e mai insegnare.
Eli, madre di quattro figli e moglie di un disoccupato cronico, si sobbarca interamente le spese per il mantenimento della propria famiglia, lavorando sette giorni su sette come banconista in un bar della capitale a due ore da casa. Vale, una sorta di stravagante performer presso locali notturni, durante il giorno si prende cura dei figli di Eli, sua migliore amica fin dai tempi dell’infanzia, nonché inquilina del piano di sopra in un fatiscente condominio sulle rive ostiensi.
Presentato in selezione ufficiale all’ultima Festa del Cinema di Roma, Sole Cuore Amore arriva in sala con parecchi mesi di scarto rispetto a quell’occasione, essendo incorso in numerosi problemi produttivi e avendo, infine, guadagnato la fiducia della Koch Media come casa distributrice, pur accontentandosi di sole 50 sale su tutto il territorio nazionale. D’altra parte Daniele Vicari gode di un certo favore da parte del pubblico e, anche tra gli addetti ai lavori, era assolutamente giustificabile la curiosità per il suo nuovo film. Ad ogni modo, per quanto bene si possa volere al cinema italiano attuale, molto più vitale a livello creativo di quanto certuni sostengano, spiace dover scrivere quanto questa pellicola sia quasi totalmente insalvabile.
Il regista in questione non ha mai nascosto l’avversione per un cinema contemporaneo a suo dire <troppo elitario e lontano dal reale>, rivendicando con orgoglio la necessità di un radicale impegno civile anche sul fronte della Settima Arte. Ertosi a giustiziere del popolo, vessato (manco a dirsi!) da uno stato autoritario e incapace di provvedere al benessere dei suoi ‘’sudditi’’, negli anni Vicari ha nutrito la propria filmografia di un’evidente disillusione politica e di una chiara sfiducia nelle istituzioni. Da Diaz-Don’t clean up this blood, ampiamente sovrastimato, fino al documentario La nave dolce, egli ha omaggiato il primo neorealismo rivoluzionario e insurrezionista, reclamando a gran voce i fini denunciatari delle proprie opere. Dunque, era doveroso anche nel caso della pellicola ora in sala non aspettarsi nulla di nuovo.
Infatti, anche in questo caso come nei succitati, una condivisibile nobiltà d’intenti si traduce sfortunatamente in smaccato moralismo. Privo di qualsiasi controllo o di un benchè minimo senso della misura, Vicari spacca gli argini del suo fiume di mera retorica e se la prende indistintamente con il mondo intero. Egli cuoce a fuoco lentissimo un’insipida minestra, mescolando in un unico calderone i temi più disparati: la crisi economica; la disoccupazione giovanile; il ruolo della donna nella società, con le immancabili figure di padrone sfruttatore e magnaccia prepotente; l’immigrazione; il fondamentalismo islamico; l’omosessualità; la malasanità, con i suoi estenuanti tempi di attesa al pronto soccorso; i disservizi capitolini del sistema di trasporto pubblico. Tutto vero, tutto giusto, ma tutto profondamente irritante.
Troppo comodo sarebbe appellarsi al pretesto dell’effetto voluto e pensato proprio ad hoc dal regista. Infatti, l’indignazione dello spettatore non nasce come risposta naturale agli eventi in campo, ma è figlia della noia generata da una totale assenza di ritmo narrativo. La colpa è di una sceneggiatura zoppa fin sulla carta e basata sull’inanellamento di sventure ai danni delle due protagoniste. Proprio qui risiede il difetto principale: le due storie corrono in maniera eccessivamente parallela, non trovando ovviamente alcun punto d’incontro. E allora quale necessità c’era di accostarle in un unico film? Se la storia di Eli, barista consumata dal ritmo irrequieto della sua quotidianità, funziona quantomeno benino, per contro il personaggio di Vale è una summa di stereotipi, che non solo non suscita alcun interesse ma distoglie anche l’attenzione dal filone drammaturgico principale. Infine, a fronte della felice scelta di ricorrere alla telecamera a mano, rimane invece un mistero l’assoldamento del grande jazzista Stefano di Battista per le musiche: non richieste dalla storia, francamente invadenti e inutilmente sottolineatorie nei minuti finali del film. Epilogo, inoltre, stiracchiato ed estenuante, che vorrebbe commuovere con convinzione, ma che invece arriva come l’unica ancora di salvezza per un pubblico torturato da appena un’ora e mezza lunga un secolo intero.
Quello che rimarrà negli occhi e nel cuore è il sorriso affaticato della Eli di Isabella Ragonese, ad oggi (ancor più dopo l’immensa prova data nello straordinario ‘Il padre d’Italia’!) una delle più grandi interpreti nostrane. Invece, di Sole Cuore Amore resterà la sensazione di un pamphlet intriso di populismo; opera di un demagogo professionista convinto di avere la verità in tasca e fiero che il proprio inno anarchico possa a buon diritto catalogarsi sotto la terrificante etichetta di ‘film d’autore’.
Sole, cuore, amore: quel pasticciaccio brutto di Daniele Vicari.
Un'accozzaglia di temi inconciliabili in nome della retorica - 4
4
The Good
- L'interpretazione di Isabella Ragonese.
The Bad
- Una molteplicità di soggetti inconciliabili unita ad una sceneggiatura scollata e indisponente.