Una famiglia – La Recensione

Abbiamo visto Una famiglia, il nuovo film di Sebastiano Riso, in sala dal 28 settembre.

Dopo aver infiammato gli animi dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia, è finalmente approdato in sala Una famiglia, il nuovo e discusso film di Sebastiano Riso con Micaela Ramazzotti. Vi presentiamo qui la nostra recensione. 

Vincenzo e Maria (Micaela Ramazzotti) si abbracciano sorridenti in un vagone della metro, quando ad un tratto lei vede qualcosa che le fa cambiare espressione e la spinge a scendere rapidamente dal mezzo lasciando a bordo il suo compagno. Che qualcosa non vada in quella coppia apparentemente felice lo si intuisce fin da subito; si scoprirà presto che i due gestiscono un florido mercato nero di neonati, ma con l’ultima gravidanza di Maria gli eventi potrebbero prendere una piega diversa.

Insieme ad Aronosfsky, è stato il promettente Sebastiano Riso, già fattosi notare a Cannes con l’opera prima Più buio di mezzanotte, ad infiammare l’ultima edizione del Festival del cinema di Venezia con il suo secondo film, al lido in gara per il Leone d’Oro. Le reazioni sono state nettamente contrastanti: accoglienza fredda, molti fischi e malcontento generale da parte degli addetti ai lavori; per contro, come da tradizione, pubblico colmo di entusiasmo e commozione. E c’è da dire che in casi come questo, nell’eterna diatriba tra spettatori e critica, è impossibile schierarsi a piè fermo.

Infatti, si potrebbe affermare che la verità sta nel mezzo, perché ad Una famiglia bisogna riconoscere i pochi giusti meriti senza perdere di vista i troppi evidenti difetti. Tra i primi rientra sicuramente l’audacia di un soggetto complesso, nonché l’indubbio coraggio del regista nell’esporsi su una tematica che definire delicata sarebbe riduttivo. Tuttavia, la sensazione generale è che la nobiltà d’intenti del progetto non trovi un giusto riscontro nel prodotto finale. E, al momento dell’imputazione delle colpe, non le si può certo attribuire alla regia, poiché Riso la mano ferma ce l’ha ed è capace di gestire con maestria i movimenti della macchina da presa. Per contro, il problema del film risiede essenzialmente nella sua sceneggiatura, i cui buchi finiscono per essere voragini incolmabili con ogni buona volontà.

L’impressione, infatti, è quella di non capire mai il movente delle azioni di questi ambigui personaggi, del passato dei quali non conosciamo praticamente nulla. Se pur accettassimo il fatto così com’è presentato, ovvero la storia di un uomo abietto e di una donna succube, le ragioni dei due appaiono assolutamente incomprensibili. Ad esempio, non si capisce il motivo per cui Vincenzo abbia dato vita ad un mercato così remunerativo, ma i cui proventi  finiscono nascosti nel muro della topaia in cui i due vivono, senza che vengano usati per alcunché. Non si comprende tantomeno la dipendenza emotiva di Maria dal compagno, nonostante le possibilità di fuga non le manchino.

Dei trascorsi di questa coppia non si sa nulla ed inevitabilmente essa si riduce ad essere composta da due maschere esageratamente macchiettistiche: lui è il tiranno vessatore e senza cuore, lei la (non) mater dolorosa vittima di angherie indicibili. A tal proposito sorgono anche legittimi dubbi sulle effettive capacità della Ramazzotti, che è sì una brava interprete, ma che sembra ormai aver sacrificato la propria iniziale versatilità in nome dei sempre identici ruoli innaffiati di lacrime amare. Affiancarle Patrick Bruel è poi un atto decisamente autolesionista, perché sarà pur bravo a rendere l’impalata asetticità del suo personaggio, eppure un baobab avrebbe forse più carisma di lui sulla scena.



Ma ciò che rende la pellicola più infelicemente provocante che felicemente provocatoria è la freddezza dell’esposizione, intessuta di una violenza così sfacciata, così perpetuata e così esasperata da risultare letteralmente nauseante. E anche qui lo stereotipo è dietro l’angolo! La società descritta finisce per essere una pattumiera maschilista che campa della propria misoginia, abitata com’è di donne che non solo appaiono incapaci di reagire ma che inoltre, ed è questa la cosa che più irrita del film, sembrano accomodarsi nello squallore che le circonda. Si potrebbe anche aggiungere che, se è vero che un’opera va sempre misurata in base alle ambizioni dell’artista, da questo punto di vista il film è un completo fallimento. Infatti, Riso ha più volte ribadito che il proprio intento non era quello di illustrare i retroscena dell’attualissima questione dell’utero in affitto, bensì quello di denunciare le responsabilità dello stato italiano nella procrastinazione ad eternum dei tempi di attesa per le adozioni e, quindi, nell’indiretta alimentazione dello smercio sottobanco di neonati. Dichiarazione bella, chiarissima e pienamente condivisibile: peccato che non si comprenda (ancora una volta!) da dove si sarebbe dovuto evincere tutto questo durante la visione del film.

recensione una famigliaPerché questo spirito infiammato e civilmente impegnato non è mai né visibile né minimamente intuibile, se non attraverso la rapida presenza di una coppia omosessuale che vorrebbe adottare l’ennesimo pargolo generato da Maria (evidente nome parlante!). Dunque, era proprio sul desiderio di quest’ultima coppia che il film avrebbe dovuto concentrarsi maggiormente, alla luce del fine primariamente politico ed umano di Riso. Invece, lo sforzo reale della pellicola va in tutt’altra direzione e il quadro complessivo è quello di una tragedia dai toni così ultra-realistici ed artefatti da non portare mai né ad empatizzare coi personaggi né tantomeno ad emozionarsi. Piuttosto si esce dalla sala con la delusione tipica delle occasioni mancate e a frullare nello spettatore non sono certo i nobili interrogativi che sulla carta il film voleva suscitare… qualcosa gira, ma decisamente più a sud.



Una famiglia - La Recensione

Una famiglia - La Recensione - 5

5

The Good

  • Coraggio del soggetto e regia asciutta ma decisa.

The Bad

  • Sceneggiatura e interpretazioni.

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