Nomadland: recensione del film di Chloé Zhao con Frances McDormand

La regista candidata all'Oscar ci porta in uno splendido viaggio alla riscoperta di noi stessi

Dalle badlands americane ad esseri sovrumani in meno di un anno. Questo infatti sarà il 2021 di una delle registe più talentuose della sua generazione, capace di farsi notare sin dagli esordi e di aver attirato le attenzioni dei Marvel Studios, pronti a sperimentare. La cineasta in questione è Chloé Zhao, regista cinese ma occidentale d’adozione, cinematograficamente parlando; autrice del fortunato The Rider – Il sogno di un cowboy e tra pochi mesi alle prese con Gli Eterni. Il suo ultimo film Nomadland, di cui parliamo in questa recensione, è tra i lungometraggi più attesi della stagione dopo aver fatto incetta di premi e pronto a far parlare di sé anche agli Oscar. Il film è l’adattamento cinematografico del libro del 2017 Nomadland – Un racconto d’inchiesta, della giornalista statunitense Jessica Bruder. Il film arriva anche in Italia su Star (il nuovo canale di Disney+) e, dove possibile, in sala.

La sessantenne Fern ha perso sia marito che lavoro durante la Grande recessione avvenuta tra il 2007 e il 2013. Dopo il crollo economico che ha portato al collasso la città aziendale di Empire, nel Nevada, e la dura perdita, la donna decide di abbandonare tutto. Fatti i bagagli e lasciata casa, il suo obbiettivo è attraversare gli Stati Uniti sul suo furgone, alla ricerca di una vita fuori dalle convenzioni (sia sociali che, soprattutto, economiche) per ritrovarsi. Durante il tragitto Fern farà la conoscenza di altre persone che come lei vivono da nomadi, volontariamente o no. Una nomade moderna, che sceglie di compiere un cambiamento gigantesco per la sua vita, cercando di dare un cambio di direzione ad essa per provare a ritrovare una pace distrutta dal dolore. Di seguito la recensione di Nomadland, Leone d’Oro al 77° Festival di Venezia e candidato a 6 Oscar.

Indice

Il significato del paesaggio – Nomadland, la recensione

Nomadland, senza troppo sforzo, è riassumibile nel nome del furgone che accompagna Fern: “Vanguard”, pioniere. Chloé Zhao, di origini cinesi, riesce a spiegare in maniera efficacie all’America quel rapporto che ha con il proprio spazio. Il che già è qualcosa di incredibile. Il carattere del paesaggio è qui finalmente visto con un nuovo significato, una nuova concezione. Ciò che più colpisce oltre al linguaggio asciutto, preciso e denso è lo sguardo che tenta la grande impresa di riconnettersi ai grandi spazi, appropriandosene, inglobandoli nella narrazione e rendendoli parte del racconto. Svincolandoli dalla loro bellezza suggestiva per renderli più luoghi interiori che di contorno. Così trova definitivamente quella dimensione potremmo dire selvaggia ma sincera, diretta e poetica in quanto tale. Meno “costruita”, più onesta. E la riconquista di uno spazio associato nel più classico del cinema western a figure maschili, diventa qui importante perché gli occhi sono femminili.

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Nomadland. Highwayman Films, Hear/Say Productions, Cor Cordium Productions

Non più una conquista materiale a suon di spari e corse a cavallo. Piuttosto un lento cammino per riunirsi agli elementi naturali, alla vita, alla morte e soprattutto con sé stessi. Qui Nomadland ha pochi rivali e la metafora più forte arriva proprio considerando ciò. Fern, facendo propri gli spazi della natura selvaggia americana, da sempre cinematograficamente monopolio maschile, non è altro che il riflesso di una diversa prospettiva cinematografica, non vincolata e limitata da genere o origine. Chloé Zhao conosce questi territori e insieme al direttore della fotografia Joshua James Richards mette in scena splendide immagini tanto evocative da avere quasi voce propria. Il valore che esse acquisiscono è però in relazione alla loro storia e allo stretto legame che hanno con quella delle vicende altrui. Nell’indissolubile rapporto con i personaggi lo straordinario paesaggio diventa un rinnovato e fondamentale co-protagonista.

Volti e connessioni, realtà e finzione

La fotografia (la luce esterna naturale è domata forse meglio di quella artificiale) di Richards e l’occhio della regista riescono a cogliere le dolci e poetiche sottigliezze delle terre selvagge. Soprattutto, però, portano l’attenzione sul volto scavato dalla stanchezza ma pieno di speranza degli umili protagonisti; sulla grande dignità e forza di chi sceglie una vita diversa e spesso, specie nel cinema, diventa un fantasma. Come per The Rider e Songs My Brother Taught Me (i lavori che hanno fatto conoscere al mondo la regista), gli emarginati, le comunità di frontiera sono l’anima. Anche qui la Zhao sceglie attori non professionisti ma stavolta si distacca parzialmente da loro, non romanza le loro esperienze ma affianca ad esse la finzione, un personaggio sceneggiato come quello di Fern che, fondendosi con i momenti più documentaristici ereditati dal passato, permette a Nomadland di trovare un’autenticità più concreta.

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Nomadland. Highwayman Films, Hear/Say Productions, Cor Cordium Productions

Rendere meno passivi questi dettagli è il passo avanti gigante rispetto ai precedenti lungometraggi. Finalmente gli occhi dei tanti personaggi diventano speciali e veri – paradossalmente solo trovando l’aggiunta della finzione “esterna”, specchio per oggettivare il loro dramma. Quest’ultimo elemento infatti riesce ad emergere senza però essere chiamato in causa, impattando naturalmente come dei flash improvvisi (le loro abitudini, la passione della comunità) nell’iter personale della protagonista. Ma l’interesse di Nomadland non si focalizza solo sul dolore, o almeno non è intenzionato a fermarsi su di esso. Il film ci parla della condizione umana di chi non si arrende davanti ad esso ma soprattutto delle fugaci quanto meravigliose connessioni personali. Perché condividendo anche brevi istanti e semplici sorrisi riusciamo a restare vivi. «Not homeless, just houseless». Ognuno lo fa per un diverso motivo ma tutti cercano la pace, possibile anche grazie alla compassione.

Gli occhi di Fern – Nomadland, la recensione

Se c’è modo di dare stabilità alla narrazione e renderla più lineare è merito, come detto sopra, del personaggio di Fern. Chloé Zhao carica sulle spalle di Frances McDormand buona parte del film, fidandosi della forza espressiva dolce e sincera dell’attrice premio Oscar. E il risultato è senza dubbi ottimo. La forza dirompente di Nomadland deve molto a quello sguardo, a quegli occhi stanchi e malinconici, che sembrano richiamare un ieri che non conosciamo, se non attraverso pillole sparse. Sguardo che pregno d’emotività esplode nel momento in cui si fonde con un sorriso che trasuda di speranza. Perché Fern sente la necessità di sentirsi nuovamente viva e di battere le strade per ricordare, superare e riscoprirsi, senza piangersi mai addosso. Di riscoprire un’esistenza perduta e per farlo deve necessariamente passare attraverso quei luoghi che possono farci perdere ma anche ritrovare, riconciliare con essi e con noi stessi.

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Nomadland. Highwayman Films, Hear/Say Productions, Cor Cordium Productions

In questo modo si svela quella circolarità nascosta da una solida e matura sceneggiatura dietro l’apparente linearità del percorso. Nomadland non è un film sui nomadi, o almeno non solo. È uno spaccato sociale così sincero e onesto che superato l’ostacolo della lontananza geografica ma soprattutto tematica riesce a portare agli occhi di tutti un mondo difficile, poco compiacente e lontano da Hollywood. Una società seguita umilmente, ripresa quasi sempre con camera ad altezza uomo, sottolineando così l’esplicita volontà di questo cinema di affiancarsi alla gente. A conclusione di questa recensione di Nomadland sottolineiamo come il film riesca bene a restituire celebrare il diritto di non arrendersi e restare uniti. E ha una coerenza interna tanto rigorosa da rendere il suo deliberato ottimismo inscalfibile in nessuna occasione, forse forzando un po’ ma guadagnandoci in accessibilità senza perdere il contatto con l’emozione.

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Nomadland

Voto - 8

8

Lati positivi

  • L'incredibile, ennesima, prova di una sempreverde Frances McDormand
  • Un paesaggio ritratto perfettamente nella sua spettacolare e selvaggia naturalezza, capace di raccontare anche la sua di storia
  • Il ritratto dei nomadi, della loro incredibile dignità e di un mondo che fatica a trovare spazio nelle grandi produzioni - qui più d'impatto grazie ad una narrazione rafforzata

Lati negativi

  • Il costante ottimismo talvolta risulta forse forzato, pur innestandosi coerentemente con la poetica dell'opera

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