Intervista a Valerio Tambone: nel cast del film La Grande Guerra del Salento di Marco Pollini
Valerio Tambone è nel cast del film La Grande Guerra del Salento, diretto da Marco Pollini. La pellicola, ambientata tra il 1948 e 1949, segue la storia di Antonio, il primo italiano a morire per una partita di calcio. Antonio, un giovane di Supersano, fu ucciso durante gli scontri avvenuti dopo la partita tra Ruffano e Supersano. Film Post incontra Valerio Tampone per un’intensa intervista sull’arte e la recitazione.
Intervista a Valerio Tambone
Sei nel cast de La grande guerra del Salento. Come descriveresti il tuo personaggio?
Augusto ha un’indole prepotente, prende tutto con violenza. È molto sicuro di sé ed è abituato ad ottenere ciò che vuole, cose e persone. È figlio di una mentalità, non solo perché siamo nel post-fascismo, ma c’è un maschilismo che lo abita e che ha caratterizzato l’Italia, da Nord a Sud, fino a non molto tempo fa.
Cosa ti ha colpito maggiormente del tuo personaggio? Quali sono gli aspetti del suo carattere che credi che possano assomigliarti?
Mi ha colpito la sua energia, capace di dominare le situazioni in cui sopraggiunge, di stravolgere gli animi, usare il silenzio come arma per far sentire le persone a disagio. Non c’è nessuno che gli tiene testa, forse solo la nonna di Agnese, che per età e per vissuto riesce a tenere testa al suo sguardo.
Come è stato lavorare sul set, diretto da Marco Pollini?
È stata un’esperienza fuori dal comune. Per circa trenta giorni siamo stati ospiti in un casolare nel cuore del Salento, dove le nostre professionalità e le nostre anime si sono incontrate. Eravamo insieme alla troupe, alla produzione, a tutti gli artisti che hanno contribuito a rendere grande il progetto. Vivere insieme così a lungo non è la stessa cosa che fare la propria giornata di lavoro e andare via. Gli umori, le passioni, i caratteri, le fragilità, le belle tavolate la sera hanno dato vita ad un altro film che la gente non potrà vedere ma potrebbe immaginare, e che pervade La Grande Guerra del Salento come una linfa vitale.
In che modo il regista ti ha aiutato a costruire il tuo ruolo?
Marco si è fidato ciecamente di me. Si è fidato della mia recitazione, di me come attore. E questa fiducia mi ha fatto anche sentire una grande responsabilità addosso. Penso tutto sia nato dal provino: mi ha scelto lui in persona, gli ho fatto ascoltare la parte finale dell’arringa storica di Bartolomeo Vanzetti, al cinema interpretato per primo di Gian Maria Volonté, in Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo. Un monologo pieno di rabbia, dolore e dignità. Poi gliel’ho fatto in salentino stretto. Marco deve aver letto l’altra faccia della medaglia, ovvero la possibilità che io esprimessi un Augusto feroce, spietato e arrogante. Il mio incontro con Marco Pollini è stato magico e immediato. Mi ha lasciato fare, proporre, mi ha trasmesso un grande senso di libertà creativa e la possibilità di costruire un personaggio speciale e non generico.
Quale speri che sia il messaggio che questa pellicola può dare agli spettatori?
La violenza potrebbe essere un’allegoria senza tempo. Caratterizza l’uomo da sempre e per sempre. Non c’è mai una giustificazione e questa pellicola insegna quanto sia stupida. Sono tante le occasioni, durante il film, in cui i personaggi, le fazioni, potrebbero fermarsi e non dal luogo ad azioni e strascichi di violenza. Invece essi scelgono sempre la via più semplice e veloce, quella della legge del più forte, quando invece altro non sono che comuni mortali. Questa via nel film porta chiaramente al sangue e soprattutto a perdere tutto, compresa la vita. Credo che il film voglia dimostrare quanto il male trovi sempre un risultato nello sfacelo e nella perdita, a qualsiasi livello. In fondo in due paesini in lotta è come se fosse due personaggi, dove il negativo si scontra col negativo. L’unica possibilità è fermare la disfida, qualcuno ci prova, ma ha una voce troppo debole, venendo inoltre da un periodo storico in cui la violenza era dimostrazione di superiorità.
E cosa ami maggiormente di questa storia?
Amo la sua unicità. Non è un Salento “brandizzato” quello che si vede. È autentico, sconosciuto, ameno. Ogni immagine del film è un quadro impressionista. I colori rendono quelle stesse immagini dei ricordi, delle foto che i nostri nonni conservano e magari qualche volta ci hanno mostrato raccontandoci aneddoti e storie antiche. Ma la storicità contenuta nel film ne fa comunque qualcosa di contemporaneo. Scoprendo storie antiche si arricchisce la vita di oggi, e scoprendo questa storia ho amato il fatto di essere catapultato, da spettatore, in un tempo che potrebbe essere ora. Questo perché l’odio non è cambiato, l’amore non è cambiato, così anche la purezza di certi sentimenti e il profumo degli ulivi secolari.
Ad oggi, che significato dai alla parola “arte”?
Credo che sorella dell’arte sia la libertà. E in un mondo, quello del 2022 in cui ancora c’è una guerra, non capisco la parola libertà e non capisco la parola arte. Il mio pensiero va agli artisti ucraini, che possano trovare la forza di esprimere libertà, attraverso le loro mani, e insegnarci un contemporaneo significato della parola arte. Nella mia carriera ho lavorato in molti settori artistici differenti tra loro, ma in realtà ho sempre sentito di stare fare un’unica grande cosa, che è arte e odora di fatica, non di premi. Costruire bellezza è faticoso, come la fatica che si fa per fare un film. Arte è trovare una via per vivere. O sopravvivere.
Quali sono le storie che vuoi raccontare e che ti rendono libero?
Sono un amante del neorealismo, ma oggi mi piacciono le storie che riescono a restituire anche un’atmosfera più rarefatta e surreale. Amo molto la Storia e chi riesce a fare di personaggi conosciuti o meno noti dei capolavori. Amo i personaggi sbagliati, irrisolti, che vengono fuori dall’Inferno. Nella mia vita mi è capitato di scrivere per il teatro, da cui provengo, e d’istinto scrivevo storie possibili in luoghi indefiniti. Oppure ho fatto la regia di racconti totalmente assurdi e stravaganti ma che al loro interno contenevano le più crude verità delle passioni umane, brutali e rappresentative del mondo di oggi. Ecco, mi sono sentito libero quando sono riuscito, attraverso l’impossibile, a raccontare il possibile.
Quali sono i film e le serie che ami guardare?
Preferisco di gran lunga sedermi al cinema, ci vado spesso, anche da solo e negli orari più impensati. Se c’è una serie, ormai vecchia che mi ha colpito molto, è stata The OA, un esempio di come in un mondo fantastico, inesistente, i sentimenti più semplici e puri siano possibili e raccontabili. Mentre tra tutti i film cito il film che mi ha fatto innamorare del cinema quando ero piccolo: “La doppia vita di Veronica”, di Krzysztof Kieślowski. Un film che mi ha insegnato i colori, il romanticismo moderno, il silenzio, le immagini offuscate, un modo unico di raccontare i dilemmi esistenziali.
Quali sono i registi, le registe, le artiste e gli artisti che ti ispirano?
Amo molto Gus Van Sant, Lars Von Trier, Chloé Zhao, Lina Wertmuller, Pasolini, Bela Tarr, Krzysztof Kieślowski, Monicelli, Elio Petri, Fellini. Se c’è un’attrice che adoro è Jessica Chastain, che finalmente ha vinto l’Oscar (la amo sin dai tempi di Salomè, diretta da Al Pacino). La trovo bravissima, oltre che bellissima. Sono inoltre permeato da Anna Magnani. E poi Gian Maria Volontè, che è sicuramente un punto di riferimento per me, anche per le scelte artistiche che faceva, di un cinema fortemente politico.