At Eternity’s Gate: recensione del film su Van Gogh

Recensione di At Eternity's Gate, il film sugli ultimi anni di vita di Vincent Van Gogh a cui presta il volto un convincente Willem Dafoe.

È un film su cosa significhi essere un artista At Eternity’s Gate, e non un artista qualunque, bensì uno dei pittori più influenti e originali del Ventesimo secolo come Vincent Van Gogh. Un’anima tormentata, sola, che trovava pace solo mentre passava il pennello sulla tela perché così riesce a smettere di pensare. Visto direttamente alla 75esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione in Concorso ecco a voi la recensione di At Eternity’s Gate.

La recensione di At Eternity’s Gate, il film su Van Gogh

Non è un biopic tradizionale. Il lungometraggio di Julian Schnabel ripercorre l’ultimo periodo di vita del pittore olandese passato in Francia, dove trascorse anche alcuni mesi di reclusione in manicomio. Ci viene mostrata la quotidianità di Van Gogh fatta di solitudine, tempo passato in mezzo alla natura dove il pittore traeva la sua maggiore ispirazione; di pasti consumati alle locande, di ricerca del fratello Theo (Rupert Friend), del suo appoggio e della sua stima. Del suo bisogno di compagnia e di amicizia che riesce a lenire per un po’ con la convivenza con il collega Paul Gauguin (Oscar Isaacs) fino a quando anche questi non lo abbandonerà perché i loro “caratteri sono incompatibili”. E poi Arles, la cittadina del sud della Francia tanto amata da Van Gogh ma i cui abitanti lo hanno respinto fino alla fine, senza mai farlo sentire uno di loro.

Il ritratto di un artistaat eternity's gate recensione

Sono i tormenti dell’anima di un artista a interessare il regista Julian Schnabel, che del pittore ha voluto raccontare i tratti febbrili – sia pittorici che personali -, i fantasmi, i credo, il bisogno di riportare su tela ciò che vedeva e lo entusiasmava. Paul Gauguin gli dirà di prendersi il suo tempo per dipingere, che stendeva pennellate talmente in fretta da non capire nemmeno cosa stesse rappresentando. Ma Van Gogh lo sapeva eccome. I suoi pittori preferiti erano Goya, Velasquez, Delacroix: “tutti pittori dal tratto deciso, netto e veloce”.

Il bisogno di esprimersi era così prorompente da non poter indugiare troppo sul da farsi. Era un pittore che aveva prodotto tantissime opere, in alcuni periodi persino un quadro al giorno. Per non contare gli schizzi. Van Gogh riempì un intero libro contabile donatole dalla padrona della locanda in cui si era fermato qualche mese ad Arles. Glielo fece recapitare appena uscito di manicomio, ma la donna non se ne accorse mai. Il libro, contenente una sessantina di schizzi firmati da Van Gogh, fu ritrovato due anni fa, nel 2016. Dopotutto il nostro pittore – nonostante un fratello mercante d’arte e una recensione entusiasta di Aurier, il critico più in voga all’epoca – non riuscì mai a vendere una tela finché in vita.

La regia sinestetica

At Eternity’s Gate – Sulla soglia dell’eternità (Vecchio che soffre) è anche il titolo di un’opera dipinta da Van Gogh due mesi prima di morire. Nel quadro è raffigurato un uomo rannicchiato con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la testa tra le mani in preda alla disperazione. La stessa che il nostro pittore era incapace di gestire e di affrontare. Le immagini del film di Schnabel traballano, si capovolgono, si sfocano, come i suoni si fanno offuscati o le parole si ripetono senza pietà e la musica diventa un fischio assordante. La macchina da presa e i rumori sono preda dell’umore, del dolore e del frastuono del nostro pittore. Si crea così un rapporto sinestetico tra protagonista e regista, tra sensazioni, emozioni e dolori del Van Gogh di Schnabel e Schnabel stesso.

At Eternity’s Gate: valutazioni finali

at eternity's gate recensione

Vincent Van Gogh morì nel 1890 a soli 37 anni. Schnabel ha però scelto un sessantenne per interpretarlo. Gli occhi di Willem Dafoe guizzano vivaci, si accendono come quelli di un bambino, si entusiasmano per un vaso di fiori, per le radici degli alberi, per il vento, per i suoi scarponi usati. E non reggono la miseria dell’uomo e del mondo e riversano tutti i tormenti dell’anima. At Eternity’s Gate è la confessione di Van Gogh. Prima familiare, poi artistica e infine religiosa. È la confessione di un uomo che viveva il disagio di vivere un tempo che non era il suo. Di non poter “raccogliere la grazia che aveva seminato”, come dirà al pastore del manicomio, interpretato da Mads Mikkelsen.

Perché Van Gogh era figlio di un pastore e lui stesso aveva pensato di diventare un uomo di Dio. E nel film sono molte le parabole religiose che il pittore adopera per esprimersi. Il film di Schnabel dipinge un alienato, un incompreso e quindi un uomo solo. Ritrae un uomo che trova la sua dimensione, la sua autenticità quando ha in mano un pennello, osserva un panorama e può usare il colore giallo, che tanto gli piaceva. E gli occhi di Willem Dafoe ci raccontano tutto questo. La candidatura all’Oscar è nell’aria.

At Eternity’s Gate

7 - 7

7

Voto

Lati positivi

  • La recitazione vivace e sensibile di Willem Dafoe.
  • La regia appassionata e personale di Julian Schnabel

Lati negativi

  • Alcune scene troppo estetizzate

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *