Dogman: la recensione del film scritto e diretto da Luc Besson – Venezia 80

"Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane", Luc Besson sbarca al Lido con Dogman, in Concorso Venezia 80 e al cinema dal 28 settembre

“Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”. Recita così, con una citazione del poeta Alphonse Lamartine, la tagline di Dogman, film scritto e diretto da Luc Besson in Concorso a Venezia 80 (qui il trailer). Besson, che sbarca al Lido per la prima volta in concorso, porta sullo schermo una storia ispirata a un drammatico fatto di cronaca francese e confeziona un film sul dolore e sulla guarigione. Un film schietto, ispirato e sorprendentemente dolce con protagonista un antieroe ultimo e dimenticato che non può fare a meno di ricordare il Léon di Jean Reno. O il Joker di Joaquin Phoenix nell’omonimo film di Todd Phillips Leone d’Oro a Venezia nel 2019. Un film che, una volta usciti dalla sala, vi porterà a pensare che sì, i cani sono davvero migliori degli esseri umani, come recita il famoso luogo comune. E sono proprio i cani – tanti e delle razze più disparate – i veri protagonisti del film, insieme a Caleb Landry Jones, semplicemente perfetto nei panni di Douglas.

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LBP, EuropaCorp, TF1 Films Production

Indice:

Un viaggio nelle tappe di un dolore disperato e di un’altrettanto disperata ricerca di amore

Facciamo la conoscenza di Douglas quando la polizia lo ferma a bordo del suo furgone. È vestito e truccato come Marilyn Monroe, il corpo pieno di ferite e il volto sporco di sangue. Una volta arrestato è affidato alle cure di una psichiatra (Jojo T. Gibbs) incaricata di stendere un suo profilo, provare a comprendere chi sia e capire in quale sezione del carcere collocarlo. Ed è dai loro colloqui che veniamo a conoscenza del passato di Douglas. Besson racconta la storia del suo antieroe tramite una serie di flashback che sono un viaggio nelle tappe di un dolore disperato e di un’altrettanto disperata ricerca di amore.

Quando ha solo 9 anni Douglas viene rinchiuso dal padre, violento e fanatico religioso, in una gabbia insieme ai cani destinati ai combattimenti clandestini. Trattato peggio di una bestia dal padre e dal fratello e abbandonato dalla madre, Douglas trova nei cani la sua nuova famiglia. Sviluppa con gli animali un rapporto di empatia assoluta che, col passare degli anni, diventa sempre più totale fino a diventare amore incondizionato. O, addirittura, qualcosa di ancora più profondo. Perché “i cani non mentono quando parlano d’amore”. Ed è proprio grazie all’amore dei propri cani che Douglas guarisce imparando a rispondere a violenza, ingiustizie e soprusi come una sorta di letale Robin Hood.

Una parabola che parla di amore e dolore, emarginazione e affermazione di sé, di guarigione e vendetta

Luc Besson prende spunto dal caso di cronaca di un bambino chiuso in gabbia quando aveva solo 5 anni e ne immagina il percorso. Ipotizza un futuro in cui siano i cani a salvare una giovane vita che ha conosciuto solo violenza e solitudine. Il risultato è il “viaggio dell’eroe” raccontato in Dogman: una parabola che parla di amore e di dolore, di emarginazione e affermazione di sé, di guarigione e vendetta. Quella cui appartiene Douglas è una tipologia di personaggio che Besson sa trattare e raccontare bene: un antieroe, un ultimo, un randagio. Un individuo che ha cercato affetto e amore in chiunque potesse essere in grado di darglieli. E che affetto e amore li ha trovati nei cani, “esseri viventi” che – racconta Douglas – “hanno tutti i pregi degli uomini senza averne i vizi”.

La parabola di Douglas è raccontata da Besson con una sorprendente costante di commovente dolcezza che rende impossibile non fare il tifo per questo antieroe à la Joker, dotato della capacità di discernere tra bene e male senza moralismo di maniera ed in grado di percepire l’altrui dolore a livello profondo. Douglas cerca la bellezza come antidoto all’orrore e la trova nell’arte e in particolare nel teatro shakespeariano. Insegue la ricerca della propria identità e la trova nelle maschere che indossa per vedere allo specchio un’immagine che rifletta il suo vero io. Pur sotto il trucco che lo trasforma ora in Edith Piaf, ora in Marlene Dietrich.

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LBP, EuropaCorp, TF1 Films Production

Dogman è un inno emozionante all’amore puro, che richiede a chi guarda un approccio dello stesso tenore

Dogman è un film sfacciato, poetico nel suo essere in equilibrio tra melodramma e favola oscura con un’estetica e scelte visive che si avvicinano a tratti a quelle di una graphic novel. Ed è una favola tanto tenera quanto sanguinosa che non si preoccupa di coerenza e verosimiglianza e che richiede un certo sforzo di sospensione dell’incredulità, soprattutto man mano che ci si avvicina all’epilogo. L’unico epilogo possibile per una storia di tale tenore. E si sta volentieri al gioco, ormai catturati e rapiti, anche quando la sceneggiatura sembra peccare di ingenuità. Besson abbraccia l’eccesso e l’esagerazione in un film costruito in climax e sostenuto dall’interpretazione di Caleb Landry Jones, che veste i panni (e le maschere) del suo Douglas con un’intensità pazzesca.

Costumi, fotografia e colonna sonora arricchiscono la narrazione in totale sinergia. La scelta delle musiche e l’utilizzo della bella colonna sonora curata dal collaboratore storico Éric Serra sono commento partecipe e puntuale all’azione, contrappunto perfetto di quel che va in scena. Dogman è un film che ha il cuore del primo Besson e una purezza lacerante e dolorosa. Un racconto che non nasconde la sua natura, senza paura di assestare il colpo ed esibire, un inno emozionante all’amore puro, che richiede a chi guarda un approccio dello stesso tenore. Un film che, proprio come i suoi protagonisti, non mente quando parla d’amore. Dal 28 settembre al cinema.

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LBP, EuropaCorp, TF1 Films Production

 

Dogman

Voto - 7.5

7.5

Lati positivi

  • Un racconto che non nasconde la sua natura, senza paura di assestare il colpo ed esibire, un inno emozionante all'amore puro
  • Caleb Landry Jones è artefice di una prova pazzesca

Lati negativi

  • Man mano che ci si avvicina all'epilogo la sceneggiatura pecca di qualche ingenuità e quel che si richiede è un notevole sforzo di sospensione dell'incredulità

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