Jeremiah Johnson: il western revisionista con Robert Redford

Recensione Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson): approfittando del compleanno di Robert Redford, riviviamo una delle sue grandi interpretazioni, analizzando il western revisionista diretto da Sydney Pollack.

Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson) è un film western del 1972 diretto da Sydney Pollack. E sappiate che a partire da questa sola frase potremmo aprire un migliaio di parentesi. A partire dal titolo, Jeremiah Johnson, come di consueto poi traslitterato alla meno peggio in lingua italiana; la tendenza voleva, in quegli anni, e specie nei film western, di rinominare i film per nome/cognome, tra Butch Cassidy, Pat Garrett e Billy the Kid, McCabe and Mrs. Miller per finire a Will Penny… Ok, forse il titolo italiano non sembra più così malvagio.
Un film western, dicevamo. Ma quale western e western, se la pellicola è lontana anni luce dal classicismo di John Ford e Howard Hawks, dagli spaghetti-western alla Sergio Leone, dal revisionismo storico-sociale de Il piccolo grande uomo o Soldato blu? Siamo forse di fronte all’opera più atipica e fuori dagli ordinari schemi di sempre, lontana dal tempo e dallo spazio, in una dimensione tutta sua.

recensione jeremiah johnsonSiamo nel 1972, e in concorso al 25º Festival di Cannes viene presentato Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson), ispirato alla vita dell’iconico trapper Mangiafegato Johnson, che avrebbe, secondo la leggendaria tradizione, intrapreso un’estenuante vendetta durata più di 20 anni contro una tribù di nativi americani
(Crow): per ogni nemico ucciso, ne avrebbe preso come trofeo, per poi mangiarlo, il fegato; da qui il nome. Il soggetto, tratto dal racconto Crow Killer: The saga of Liver-Eating Johnson di Raymond Thorp e Robert Bunker e dal romanzo Mountain Man di Vardis Fisher, venne inizialmente affidato dalla Warner Bros. alle sapienti mani di John Milius e Sam Peckinpah: il primo, ormai regista e sceneggiatore in forte ascesa in quel di Hollywood (avrebbe poi sceneggiato, per citarne uno, Apocalypse Now), con l’aiuto di Edward Anhalt ne curò la sceneggiatura; il secondo rappresentava il mammasantissima regista di genere di quel rinascimentale periodo, e si sarebbe occupato della regia. Ah, e il protagonista sarebbe dovuto essere Clint Eastwood. Poi regista e attore protagonista vennero quasi alle mani, la Warner diede un sonoro taglio ai fondi e chiese a John Milius, che così facendo veniva rimbalzato da un universo all’altro, di adattare la sceneggiatura per il nuovo protagonista Robert Redford. Ma mancava ancora il regista.


robert redfordIn un clima del genere, sarebbe già stato tanto giungere alla realizzazione effettiva del film. Ma Robert Redford prese a cuore il progetto, e convinse Sydney Pollack, con cui aveva già collaborato in Questa ragazza è di tutti, a prendere le redini della regia. Tuttavia i produttori decisero di girare il film in semplici backlot per limare i costi. Ma Redford e Pollack riuscirono a convincerli che sarebbe costato lo stesso girarlo all’aperto, in più di 100 location nello Utah. Ancora oggi ci chiediamo come. Pollack fu addirittura costretto a ipotecare la propria casa: un rischio che gli stravolse la carriera. Il tutto mentre John Milius si vedeva costretto a riscrivere per l’ennesima volta la sceneggiatura, che tra carenza di effetti speciali e cavalli smembrati, divenne molto più stringata, criptica e suggestiva.
Come sarebbe potuto essere Jeremiah Johnson senza tutti questi problemi di produzione? La risposta ce l’ha data Iñárritu girando, 30 anni più tardi, The Revenant, con cui mantiene più di un punto di contatto. Ma probabilmente in versione più umile e cruda. Per una volta osiamo accontentarci della versione azzoppata, che pur al netto delle evidenti problematiche, riuscì a stare in piedi benissimo.

western revisionistaUna premessa terribilmente lunga, ma doverosa. Perché Corvo rosso non avrai il mio scalpo è un’opera importante. Pur inserendosi nella corrente revisionista del western anni 70, infatti, ne rappresenta paradossalmente la rottura. Lontana sia dal classicismo anni 40, che stigmatizzava gli indiani nativi d’America poiché sporchi e cattivi; ma anche dal revisionismo forse troppo politically correct in pieno stile anni 70. Ad emergere è una civiltà straordinariamente frammentata nelle sue diversità di culture e vedute, ma a suo modo paritaria, coerente, assolutamente umana. Con uno sguardo teso, ovviamente, a una natura onnipresente, selvaggia; e che sfida i tentativi di sopravvivenza di un uomo che non può far altro che assecondarla, eluderla. E coi maestosi scorci paesaggistici immortalati dall’eccellente fotografia di Duke Callaghan, che fanno il resto. Robert Redford è un Jeremiah Johnson probabilmente differente dall’iniziale visione di John Milius, così come dal suo corrispettivo biografico; ciononostante si cala nella parte in punta di piedi, fornendo un’interpretazione misurata, quieta, silenziosa, ma digrignando i denti quando la sceneggiatura e gli eccellenti, seppur misurati, dialoghi di John Milius lo richiedono. Tutto questo, e anche di più, è Jeremiah Johnson: basti pensare che ad esso è ispirato il protagonista del fumetto Ken Parker.

Jeremiah Johnson: Pregi & Difetti

Rating - 9

9

The Good

  • la sceneggiatura di John Milius
  • la regia di Sydney Pollack
  • Robert Redford
  • la natura, i paesaggi, la fotografia

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