Made in USA – Una fabbrica in Ohio: recensione del documentario premio Oscar

Due culture profondamente diverse costrette a interagire e la produttività che prende il sopravvento sulla vita

Graziato dall’assenza di Parasite nella categoria Miglior documentario, Made in USA – Una fabbrica in Ohio ha recentemente trionfato agli Oscar 2020. Il documentario, attualmente disponibile su Netflix, ha infatti sbaragliato la concorrenza agli Academy Awards e portato a casa l’ambita statuetta. Made in Usa – Una fabbrica in Ohio, di cui vi proponiamo la recensione, è un lungometraggio realizzato nel 2019: il docufilm segue da vicino la vita degli operai di una fabbrica di vetri per automobili sita, per l’appunto, in Ohio. Questa fabbrica si è resa teatro di un incontro ravvicinato tra la cultura cinese e quella americana, su cui il documentario sceglie di porre l’attenzione. Nel 2014, infatti, l’azienda cinese Fuyao ha acquisito i diritti di un’ex fabbrica americana; l’evento ha comportato la riassunzione di un cospicuo numero di operai americani, rimasti disoccupati in seguito alla grande recessione.

Made in Usa – Una fabbrica in Ohio è il primo lungometraggio prodotto dalla Higher Ground Productions, casa di produzione fondata da Barack e Michelle Obama; a dirigerlo sono stati Steven Bognar e Julia Reichert. Cosa accade quando due culture tanto distanti sono costrette a coesistere, interagire e lavorare per una finalità comune? È possibile raggiungere una mediazione tra visioni discordanti al solo scopo della produttività? Nell’era della meccanizzazione e della tecnologia, la fabbrica è ancora un posto in cui l’uomo può rendersi utile (o semplicemente sopravvivere)? Questi e altri interrogativi emergono dalla visione di Made in Usa – Una fabbrica in Ohio, che analizzeremo in questa recensione.

Indice

Produttività vs vita – Made in USA Una fabbrica in Ohio, la recensione

Nel 2014 l’azienda cinese Fuyao acquisisce l’ex fabbrica della General Motors a Moraine, sita nello stato americano dell’Ohio. La riapertura della fabbrica, produttrice di vetri per autovetture, regala un’insperata opportunità di lavoro a molti operai rimasti disoccupati; tra il 2007 e il 2013 infatti, gli Stati Uniti d’Americani sono stati colpiti dalla grande recessione, che ha causato la chiusura di molte fabbriche e il licenziamento degli operai che vi lavoravano. L’acquisizione della fabbrica da parte dell’azienda cinese, dunque, apre la prospettiva di un futuro più roseo per molti operai e per le loro famiglie. Ma molto presto la coesistenza tra la cultura cinese e quella americana si rivela ardua; a pagarne lo scotto saranno, come spesso accade, i diritti e il benessere degli operai. Gli operai americani scoprono presto che lavorare sotto l’egida cinese mette a dura prova l’incolumità del lavoratore stesso.

Benché la produttività sia il fine ultimo di qualsiasi fabbrica, qui gli americani lamentano la noncuranza dei cinesi rispetto a diritti e norme di sicurezza. Dal canto loro, i cinesi lamentano la scarsa predisposizione al sacrificio e al duro lavoro da parte degli americani, e una conseguente resa insufficiente della fabbrica. I cinesi pensano che gli americani ricerchino complimenti e gratificazioni, piuttosto che sacrificarsi in nome della produttività. Mossi da un palpabile pregiudizio verso la cultura americana, i cinesi provano a dimostrare di essere capaci di gestire in modo eccelso la fabbrica (sono loro stessi a dichiarare tale intento, durante una riunione gestionale). Emerge quindi, insieme al pregiudizio, una sorta di timore reverenziale dei cinesi verso gli americani, la cui incolumità fisica è di frequente messa a rischio. Presto arrivano gli infortuni sul posto di lavoro, e in fabbrica si apre la stagione delle denunce e delle rivendicazioni.

Uomo vs macchina

Il documentario alterna con equilibrio il punto di vista cinese e quello americano. Senza partigianeria e con assoluta limpidezza, i registi rendono facile allo spettatore il compito di immergersi nella realtà della fabbrica, e nella vita quotidiana di chi vi lavora. Si susseguono con ritmo cadenzato e armonioso le vicende di chi ha il compito di gestire e di chi deve occuparsi di eseguire. Il focus sui diritti dei lavoratori non tutelati è trattato con asciuttezza, e si respira la disumanità di alcune condizioni di lavoro. I ritmi di produzione estenuanti e l’alienazione che ne deriva, fanno da contraltare alle richieste dei gestori della fabbrica(che lamentano l’eccessiva lentezza degli operai). E presto si arriva a pensare di assumere più operai giovani e meno esigenti, finché non si decide di automatizzare la produzione. Ma il diritto al lavoro può essere direttamente proporzionale al grado di rassegnazione allo sfruttamento?

Ciò che emerge con vividezza è l’impossibilità dell’essere umano di rendersi meccanico oltremodo. Quando la resa di un operaio in carne ed ossa viene messa a confronto con quella di un braccio meccanico, l’uomo è già inevitabilmente al tappeto. Questa realtà, che può apparire banale, è il fulcro dell’impossibilità della fabbrica di decollare; d’altro canto, sembra quasi impossibile appianare i contrasti tra le due culture. I proprietari cinesi licenziano in tronco chi decide di fare appello al sindacato, punendo la rivendicazione dell’uomo a essere trattato come tale. Durante il documentario seguiamo anche le storie degli operai cinesi che, lavorando in Ohio, patiscono la lontananza dalle proprie famiglie (a causa delle poche ferie concesse). Nell’era in cui la macchina lavora e produce senza rivendicare diritti, qual è il destino dell’uomo nella fabbrica? Quando la fabbrica sembra non avere più bisogno dell’uomo, cosa può inventarsi egli per rendersi indispensabile?

Made in Usa - Una fabbrica in Ohio recensione

Considerazioni finali – Made in USA Una fabbrica in Ohio, la recensione

“Una montagna non ospita due tigri”: è questo il proverbio usato da un lavoratore cinese durante il documentario. Il proverbio descrive simbolicamente il contrasto apparentemente insolubile tra la realtà cinese e quella americana. Concludendo la nostra recensione di Made in Usa – Una fabbrica in Ohio, evidenziamo l’ottimo lavoro di questo documentario premio Oscar (il cui titolo in lingua originale è American Factory). Il lungometraggio è un amplificatore di una serie di conflitti (Uomo contro macchina, Cina contro America, produttività contro vita umana) che si insinuano in una realtà come quella della fabbrica. La sfida della globalizzazione si scontra con le difficoltà comunicative tra due visioni diametralmente opposte, che devono incontrarsi e lavorare a un progetto comune. Sono messi sotto la lente d’ingrandimento i contrasti da una parte, e i rapporti fraterni che possono nascere tra gli operai in difficoltà dall’altra.

Tra terrorismo psicologico e licenziamenti dimostrativi, la lotta per la supremazia incontra le esperienze personali dei protagonisti di una storia reale quanto vera. La Cina di ieri (che desiderava trarsi fuori dall’indigenza), si contrappone alla Cina di oggi (con una brama sempre maggiore di ricchezza e potere). Ma al centro del documentario c’è anche il lavoro, inteso non come mezzo di sostentamento ma come vero e proprio senso della vita. Che cosa rappresenta oggi il lavoro? È un mezzo tramite cui ottenere un riconoscimento dal mondo esterno? È utile solo a scacciare il proprio senso di vuoto e inutilità, o è ancora un valore in cui credere produttivamente? Questo documentario sviscera interessanti quesiti e ne lascia altri aperti. Declina la silente conflittualità in modo sottile e trascina lo spettatore in una realtà alienante e sempre viva come quella delle fabbriche.

Made in USA - Una fabbrica in Ohio

Voto - 8.5

8.5

Lati positivi

  • Mette in luce molto bene la diversità tra le due culture e visioni, e la conseguente difficoltà di realizzare una comunicazione proficua
  • Accompagna lo spettatore in un viaggio di immedesimazione nel lavoratore, evitando il rischio di essere freddo e cronachistico
  • L'impostazione data non è smaccatamente polemica, ma crea un equilibrio tra esposizione del problema e rispetto delle visioni delle parti in causa
  • Lo spettatore riflette, sente profondamente ciò che viene proposto e si forma una propria idea, senza che la denuncia gli venga urlata in faccia

Lati negativi

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  • Potrebbe non coinvolgere chi non ha un interesse pregresso per le problematiche affrontate

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