Parasite: recensione della Palma d’oro di Cannes 2019

Recensione di Parasite di Bong Joon-ho, film sudcoreano vincitore della Palma d'oro di Cannes 2019

Parasite recensione. Bong Joon-ho ritorna in grande stile e grazie a Parasite (Gisaengchung) segna la storia artistica della Corea del Sud aggiudicandosi la prima Palma d’oro del paese a Cannes 2019. In Italia il film sarà distribuito nelle sale grazie ad Academy Two. Il cineasta sudcoreano riprende le redini del proprio percorso autoriale dopo il passo falso di Okja, distribuito da Netflix, scrivendo e dirigendo la settima pellicola (escludendo l’episodio Shaking Tokyo del film collettivo Tokyo!). Al di là delle opinioni, è difficile non rimanere estasiati e spiazzati da un’opera che danza fra dramma e humour con impressionante fluidità.

L’Asia è diventata la culla artistica contemporanea: in particolare la produzione cinematografica non è seconda a nessuno per prolificità e qualità. Tuttavia l’apertura occidentale a mentalità ed arte dell’estremo oriente è un frutto non ancora del tutto maturo e nel nostro paese lo dimostra la limitata distribuzione, sia al cinema che in home-video, di autori importanti e pellicole meravigliose. È dunque un piacere prendere atto del crescente e meritato riconoscimento internazionale concesso ad un cinema, talvolta controverso, che riflette filosoficamente sul mondo e sulla società tramite prospettive originali.

Indice:

Parasite recensione – Storia di più di un impiegato

Kim Ki-tek (Song Kang-ho), un padre coreano disoccupato, vive con la famiglia in una fatiscente abitazione sotto il livello della strada di un quartiere povero. Qui trascina l’esistenza fra odori acri, espedienti per sbarcare il lunario come piegare cartoni della pizza e il tentativo di concedersi basilari lussi tecnologici. Inaspettatamente il figlio maschio, Kim Ki-woo (Choi Woo-shik), raccomandato da un amico e grazie alle doti di falsificazione di documenti della sorella Choong-soo (Jang Hye-jin), riesce a farsi assumere, con un lauto compenso, come insegnate di inglese per la figlia dell’agiata famiglia di Mr. Park (Lee Sun-kyun). Galvanizzato dal successo, il ragazzo pone le basi per un processo di subdola insinuazione dei parenti all’interno del focolare borghese.

Parasite è un film corale dove ogni azione e pensiero si riversa con forza tanto sul singolo quanto sul gruppo. Infatti Bong mette in scena un’ambiente che di coreano ha poco: ciò permette un’analisi sociale e politica scevra da territorialità. Lo studio delle cause dell’ampia forbice fra ricchi e indigenti e gli effetti che comporta, della cultura consumista e dell’egoismo naturale dell’uomo che si alimenta con la rabbia è universale, accomuna tutti. Come nel famoso disco “Storia di un impiegato” di Fabrizio De André (anche se una delle canzoni presenti nel film è di Gianni Morandi), la pellicola sviscera una violenta ma necessaria presa di coscienza e cerca di comprendere se vi sia una soluzione alle disuguaglianze contemporanee. L’impiegato, il povero, non dovrebbe esprimersi come un entità individuale bensì come moltitudine.

Parasite recensione – Prospettiva del conflitto

Parasite è un film costituito da differenti prospettive e nutre concetti, tecnica e messa in scena di movimenti ascendenti e discendenti, in un perenne evidenziare le differenze fra chi è in alto e chi è in basso. Uno degli elementi più utilizzati è la scala: porta dal quartiere decadente alle zone benestanti, dalla strada crepata alla fastosa villa, dal piano inferiore a quello superiore. Allegoricamente essa costituisce un muro che divide gli uomini in caste e li incatena inesorabilmente. La scalata è una mera illusione di poter risalire da un abisso di nevrosi, mancanza di possibilità e sfruttamento dove persino il proprio odore marchia a fuoco il debole come un ferro incandescente il bestiame.

Bong delinea parallelismi grazie ad un montaggio che crea fini contrasti concettuali fra immagini e sequenze; giocando con gli stereotipi tesse una cupa, didascalica ma raramente pedante, disamina sulle possibilità della lotta di classe. A differenza di alcuni lavori precedenti come Barkin Dogs Never Bite (citato dai cani dei Parke Snowpiercer, la meditazione si distacca da un ottimismo di fondo. Marx individuava il lavoro come massimo elemento di realizzazione dell’uomo, ma il capitalismo attanaglia il debole e, anche se questi ha delle capacità, come i figli di Kim Ki-tek, non permette di sfruttarle ma solo di porle al servizio del crimine e del sotterfugio. Si configura così una contemporanea servitù della gleba: il lavoro del povero è quello di essere tale e non ha le possibilità di sfuggire da un destino scritto.

Parasite recensione – Homo homini lupus

La cifra stilistica del cineasta coreano permette a Parasite di elevarsi a summa artistica. La commistione di generi, oscillando fra dramma, thriller e commedia è terreno fertile per costruire un impianto a tinte surreali. Azioni ed eventi tratteggiano i personaggi sotto numerosi aspetti e questi evolvono, in modo ambiguo, ad ogni sequenza. Si configura una lotta senza quartiere dove la prevaricazione e l’arrivismo non hanno remore: non esclusivamente uno scontro fra despota e servo, fra ricco e povero, ma una guerra hobbesiana tutti contro tutti. I Park vivono su una collina formata dalle spalle degli ultimi da dove, boriosi ma non cattivi, non si rendono conto neanche di un disastro naturale che può colpire i piccoli “parassiti” sottostanti.

È proprio il concetto di famiglia ad essere messo in discussione. All’interno del nucleo benestante solo i bambini sono così puri da poter rigettare il lusso. In particolare il figlio minore Da-song (Jung Hyun-joon), amante dei nativi americani (sfruttati ed ostracizzati come i poveri), patisce la sfarzosa villa e tenta, incompreso, di distaccarsene. Platone ne La Repubblica accusa la famiglia di essere un male; un luogo dove le virtù competitive e il desiderio di primeggiare su altri gruppi portano a continui conflitti e non ad una sana collettività; Bong in Parasite espone il nucleo domestico come solidale fra sé ma sciacallo e violento nei confronti dei propri simili.

 Conclusione

È difficile parlare di questo film senza raccontarne i dettagli. La narrazione è apparentemente semplice ma nasconde un sottobosco sociopolitico, sia evidente che velato, su più livelli. Ciò che appare chiaro o banale è invece l’inizio di un percorso di arricchimento e svelamento di una profondità universale mai manierista. La pellicola intrattiene, stupisce, e fa riflettere amalgamando ogni sequenza in un ritmo senza respiro che cattura lo spettatore. Mai come in Parasite, Bong affina ancor più l’abilità di spezzare la tristezza con la comicità e viceversa. Sarcasmo, gag (anche quelle scontate) e situazioni fanno ridere di gusto, finché un pensiero o un evento travolge la sala rendendola silenziosa e attenta.

In conclusione, è doveroso evidenziare la convincente ed energica prova attoriale di tutto il cast. Nota di merito a Song Kang-ho che spiazza per bravura in qualunque contesto venga messo alla prova. È stato diretto da alcuni dei principali registi sudcoreani odierni, fra cui Park Chan-wook (Joint Security Area, Mr. Vendetta,Thirst); Kim Jee-woon (The Foul King, Il buono il matto il cattivo); Lee Chang-dong (Green Fish, Secret Sunshine) ed è feticcio dello stesso Bong (Memories of Murder, The Host, Snowpiercer). Grazie a questa carriera, verrà insignito a Locarno72 del premio Excellence Award. Come la Palma d’oro di Cannes72, anche questo premio sarà consegnato per la prima volta ad un sudcoreano (addirittura alla prima personalità del cinema asiatico). Un’opera epocale anche da questo punto di vista.

Voto - 9

9

Lati positivi

  • Elettrizzante mix di humor e dramma
  • Analisi sociopolitica su più livelli
  • Ritmo incalzante
  • Cast impeccabile

Lati negativi

  • Come è possibile che non ci fosse il giardiniere?

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