Everest: la vera storia della drammatica spedizione che ha ispirato il film con Jake Gyllenhaal

Le cause che hanno portato alla tragedia sul monte Everest del 1996

Everest è il film del 2015 diretto da Baltasar Kormákur e con protagonisti Jake Gyllenhaal (nel ruolo di Scott Fischer), Josh Brolin, Jason Clarke, John Hawkes (nel ruolo di Rob Hall), Robin Wright e Michael Kelly. Selezionato come film di apertura della 72ª Mostra del Cinema di Venezia, racconta la tragica spedizione sul monte più alto del mondo avvenuta nel 1996 e narrata in varie opere letterarie, tra cui i saggi Into Thin Air di Jon Krakauer, Everest 1996 di Anatoliij Bukreev e Gary Weston Dewalt e Left for Dead di Beck Weathers. A seguito di una polemica scatenatasi con lo stesso Jon Krakauer, il regista chiarì che il soggetto del suo film si basa su Left for Dead, scritto da Weathers, uno dei sopravvissuti alla tragedia, sui racconti e le testimonianze degli altri superstiti e – non ultimo – su alcune registrazioni audio che narrano gli eventi. La spedizione del 1996 sul monte Everest è l’evento che ha segnato – fino al 2015 – il maggior numero di vittime in un unico giorno su un monte che rappresenta da sempre una sfida anche per gli scalatori più esperti e che, purtroppo, non perdona. Un triste record superato da una valanga nel 2014 che provocò la morte di 16 persone e un terremoto nel 2015 che causò 18 vittime. Ma quali sono le cause che hanno portato alla tragedia sul monte Everest?

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Everest. Working Title Films

Le cause che hanno portato alla tragedia sul monte Everest del 1996

Come già accennato, la tragedia dell’Everest è stata ampiamente documentata. Come si vede anche nel film, Jon Krakauer – autore del saggio Into Thin Air – partecipa alla spedizione, così come Beck Weathers, autore di Letf for Dead. Ed è proprio da quest’ultima opera che Everest attinge in maniera più considerevole, ricostruendo gli eventi in modo abbastanza fedele. A causare la morte degli 8 scalatori – tra il 10 e l’11 maggio del 1996 – una combinazione di eventi e condizioni proibitive che, sommandosi, hanno portato all’esito drammatico raccontato nel film di Kormákur. In primo luogo l’elevato numero di scalatori presenti in parete (34) e una gestione caotica degli orari limite oltre i quali – in qualunque punto dell’ascensione si trovassero – i partecipanti alla spedizione avrebbero dovuto tornare indietro. Rob Hall aveva considerato due orari limite per rientrare (la una o, al più tardi, le due del pomeriggio), mentre Fischer aveva preferito non porre alcun vincolo. E ancora l’ora e mezza di ritardo sulla tabella di marcia provocata da due imbottigliamenti – uno sul The Balcony (8350 metri) e l’altro sull’Hillary Step (8760 metri) – causati dall’assenza di corde fisse e dall’elevato numero di persone che passavano una alla volta.

Sul Balcony gli scalatori dovettero interrompere l’ascesa per quasi un’ora, ovvero per il tempo necessario a permettere di piazzare le corde fisse. Un membro di una spedizione montenegrina – poi fallita – effettuata il 9 maggio aveva infatti erroneamente avvisato uno sherpa della presenza delle suddette corde che, in realtà, mancavano. Sull’Hillary Step vi fu un ingorgo massiccio, dettato anche dal fatto che Rob Hall e Scott Fischer avevano chiesto ai propri scalatori di non allontanarsi più di 150 metri gli uni dagli altri per ragioni di sicurezza. Oltre a queste cause vanno aggiunti il malore di due scalatori nei pressi della cima e il fatto che molti alpinisti terminarono l’ossigeno prima, o durante il ritorno alla Cima Sud, dove vi era una scorta di bombole. E anche questa è una problematica di estrema gravità provocata dai numerosi ritardi. Molti scalatori si ritrovarono così senza ossigeno nella cosiddetta zona morta, chiamata in questo modo perché la maggior parte di persone che si trova in quest’area muore per ipossia nel giro di brevissimo tempo. Infine l’arrivo improvviso e terribile di una tempesta violentissima che aggravò notevolmente le già precarie condizioni degli scalatori.

 

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