I migliori film d’esordio: dieci opere prime passate alla storia

Dieci tra i film d'esordio più di impatto nella storia del cinema

Migliori film d’esordio. Un film d’esordio per un regista è paragonabile a una lettera di presentazione. Nel momento in cui un’idea si fa largo nella mentre e prende forma attraverso le immagini cinematografiche, è come se attraverso la regia una persona comunicasse la propria identità, i suoi pensieri, il modo in cui vede il cinema. Spesso senza grandi budget a disposizione, dovendo assumersi qualche rischio e entrando per la prima volta dentro un apparato produttivo complesso, alcune di queste idee sono riuscite a ritagliarsi un loro spazio nella storia, diventando un manifesto per i cineasti dell’epoca e un punto di riferimento per le generazioni future.

Alcuni di questi nomi sono rimasti inevitabilmente legati alla loro prima opera. Altri invece hanno saputo superarsi consacrandosi grazie a quel trampolino di lancio, mentre il loro stile maturava di pari passo con le idee e l’esperienza. Attraverso questa lista cercheremo di ripercorrere quali sono stati i migliori film d’esordio alla regia di un lungometraggio, da dove venivano le persone che gli hanno diretti e qual è stato l’impatto che hanno avuto negli anni in cui sono stati visti in sala.

Indice

Quarto potere di Orson Welles (1941) – Migliori film d’esordio

film d'esordio Pare incredibile pensare che all’epoca in cui Orson Welles girò Quarto potere avesse solamente venticinque anni. Diventato celebre attraverso uno spettacolo radiofonico, Welles ebbe la fortuna di firmare un contratto con la RKO, ai tempi tra le più importanti case produttrici. Questa gli diede piena libertà artistica, una follia se si pensa al cinema moderno, eppure questo permise la nascita di quello che numerosi critici ritengono il miglior film statunitense di sempre.

Liberamente ispirato alla biografia del magnate dell’editoria William Hearst, Quarto potere racconta la storia di Foster Kane (interpretato dallo stesso Welles) che nonostante l’importanza avuta nella società, muore in completa solitudine, lasciando un mistero attraverso le sue ultime parole. I flashback che costruiscono la narrazione delineano il ritratto di un uomo incapace di amare le persone, ma attratto solo dal potere. Il regista descrive un uomo che si è creato un mondo imponente e allo stesso tempo vuoto, criticando così la megalomania e la presunzione.

Welles, cosciente della sua personalità e della sua resa scenica come attore, domina lo spazio. Con l’intento di sfruttare al massimo l’inquadratura, ambienta in profondità scene cruciali del film. L’idea era di avvicinare il cinema alla vita reale, dove è impossibile essere sempre vicini all’azione. Un’idea innovativa per la rappresentazione cinematografica negli Stati Uniti in un’epoca in cui risaltava il primo piano. Questo fu di ispirazione per altri registi negli anni Quaranta, per poi essere ripreso a fine Novecento da nuove generazioni che attraverso la profondità di campo realizzavano scene ricche di tensione.

La morte corre sul fiume di Charles Laughton (1955)

film d'esordio Charles Laughton era un attore britannico molto attivo tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, interpretando ruoli anche di primo piano in film di Jean Renoir, Billy Wilder, Alfred Hitchcock.

La morte corre sul fiume è un film stilisticamente complesso, nonostante a girarlo fosse un esordiente. La lunga formazione come attore aveva consentito a Laughton di assimilare la lezione dei grandi maestri dell’epoca. Tratto dal romanzo La notte del cacciatore di Davis Grub, la storia racconta le vicende del predicatore evangelico Harry Powell, il quale rinchiuso in prigione scopre che il suo compagno di cella ha rivelato la posizione del bottino di una rapina ai suoi due figli Uscito dal carcere, Powell ne seduce la moglie allo scopo di avvicinarsi ai figli e scoprire il nascondiglio dei soldi.

L’opera dai forti riflessi noir è caratterizzata da una struttura formale polifonica dove convergono il racconto fiabesco, tematiche dark e il tema del fanatismo religioso. Amore e odio, religione e fanatismo, il mondo dell’infanzia e quello dei grandi, fiaba e delitto, l’uso della luce e dell’ombra separa le identità del film che come lo Yin e lo Yang finiscono inevitabilmente per incontrarsi.

Fu soprattutto la dura critica al fanatismo religioso, problema che negli anni Cinquanta colpiva il Sud degli Stati Uniti, la causa dell’insuccesso al botteghino del film di Laughton. Un film che con gli anni a venire sarebbe stato ampiamente rivalutato dalla critica anche per la costruzione di uno degli antagonisti meglio caratterizzati della storia del cinema. Dalla morale ambigua e dal fascino seduttore capace di colpire anche lo spettatore, Harry Powell è entrato di diritto nell’immaginario collettivo.

Hiroshima mon amour di Alain Resnais (1959) – Migliori film d’esordio

film d'esordio Prima di Hiroshima mon amour, film d’esordio di Alain Resnais, il regista francese era un autore molto prolifico di documentari. Già in questi lavori rivolgeva il suo interesse verso il tema della memoria e il tempo. Si serviva del cinema per ricercare un universo mentale nel quale si muovessero i pensieri delle persone. I lunghi carrelli, che negli anni diventeranno suo marchio stilistico, servivano per immergere lo spettatore dentro un altra realtà. Un mondo cinematografico che guardava al passato per descrivere il presente e i rapporti nella società.

Tutte queste idee Alain Resnais le converge all’interno del suo primo lungometraggio: Hiroshima mon amour. Una storia d’amore tra un attrice francese e un architetto giapponese, ambientata a Hiroshima quindici anni dopo l’esplosione della bomba atomica. Questa diventa il modo per collegare la ricostruzione di una città distrutta dalla guerra alla ricostruzione emotiva delle persone, anch’esse rimaste segnate dal conflitto. La memoria è qualcosa che ricompare sempre, soprattutto quando segnata dal trauma. Quello che Resnais cerca di comunicare è che l’unica cosa che si può fare è accettarla, così come la propria personalità e il proprio passato.

Il film descrive l’essere umano come una figura destinata alla solitudine, condannato a rievocare i suoi ricordi. Incapace di dimenticare può solo cercare nell’amore una compagnia alle sofferenze. Rivelandosi innovativo nell’uso del montaggio e soprattutto del flashback, Hiroshima mon amour vede passato e presente intervallarsi a vicenda senza evidenti soluzioni di continuità. Le memorie vengono rievocate come fossero pensieri nella mente di una persona, trascinando lo spettatore nell’intimità di quei sentimenti.

I quattrocento colpi di François Truffaut (1959)

film d'esordio Prima di dirigere il suo film d’esordio, I quattrocento colpi, François Truffaut era un critico cinematografico e giornalista francese. Tra le tante influenze che ricevette prima di iniziare la carriera come regista si possono citare Alfred Hitchcock, la cui intervista diventò uno dei libri più famosi sul cinema, e André Bazin, a cui Truffaut dedica proprio il suo primo lavoro.

I quattrocento colpi è la storia di Antoine Doinel, alter ego del regista, dodicenne che vive nella Parigi degli anni Cinquanta. Il ragazzo in seguito a una difficile situazione famigliare decide di scappare di casa. Un film che mette in scena le inquietudini dell’adolescenza, seguendo il difficile inserimento di un ragazzo dentro un mondo in costante fermento. Truffaut riteneva che i film di quegli anni fossero troppo convenzionali, troppo rivolti alla critica sociale cara alla sinistra politica. Voleva mettere più freschezza nel cinema, voleva che le storie fossero più legate al momento e alla celebrazione del mezzo stesso.

Così i sentimenti sociali che sono accennati non vengono mai approfonditi, lasciando spazio alla ricerca e all’emozione che si può ottenere solo riuscendo a sentirsi vivi. Il finale virerà proprio in questo senso, con lo sguardo in macchina del protagonista, una scena che ancora oggi viene ricordata come una delle più iconiche della cinematografia francese.

La ricerca della libertà, della gioia di vivere, passa attraverso lo sguardo della crescita. Rievocato fin dal titolo, questo sentimento nella traduzione italiana perde il suo significato. In Francia con Les Quatre Cents Coups si intende la ribellione, la turbolenza nelle gesta dei bambini.

Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard (1960) – Migliori film d’esordio

migliori esordi alla regia

Per un artista come Jean-Luc Godard Fino all’ultimo respiro può anche essere considerato come un film d’esordio modesto.  Attraverso l’evoluzione del suo stile negli anni definì un certo tipo di linguaggio cinematografico. Descriveva il suo approccio alla vita come “anarchismo conservatore”. Eppure è innegabile che fin dal suo primo lavoro, Godard lascia intravedere la direzione che da li a qualche decennio avrebbe preso il suo cinema.

Inizialmente critico cinematografico come Truffaut, Godard abbandona prima del collega quella carriera per compiere un viaggio in America, per poi non resistere al richiamo della macchina da presa e iniziare l’attività da regista. Fino all’ultimo respiroè un thriller, con tradimenti e inseguimenti polizieschi, che racconta la storia di un assassino che si innamora di una studentessa. Le inquadrature strette isolavano i protagonisti dal resto del mondo ma è nell’utilizzo del jump cut che questo film si rivela innovativo. Se in precedenza uno stacco di montaggio serviva per mostrare qualcos’altro, Godard utilizzava gli stacchi per inquadrare lo stesso oggetto, anche se a cambiare era lo sfondo o la luce, senza voler necessariamente esprimere l’agitazione mentale dei protagonisti.

Il regista si serviva di queste tecniche semplicemente perché la loro bellezza enfatizzava il concetto di cinema. Il film non doveva mettere in risalto la vita vera perché il film era la vita vera e come tale doveva essere parte dell’esperienza dei sensi. Le novità formali si intravidero anche nel suono. Godard evitò la presa diretta per avere una resa creativa del dialogo, mantenendone il completo controllo durante il missaggio. Questo lavoro portò altri registi a spingersi verso la postsincronizzazione dell’audio in maniera radicale, in cui la differenza tra suono reale e suono imposto dal regista non è più distinguibile.

Accattone di Pier Paolo Pasolini (1961)

migliori esordi alla regiaTra i migliori film d’esordio impossibile non citare Pier Paolo Pasolini,  punto di riferimento tra gli intellettuali italiani degli anni Sessanta. Scrittore, poeta, giornalista, aveva già collaborato con Fellini per la realizzazione della sceneggiatura di Le notti di Cabiria. Comunista e cattolico, i suoi pensieri andavano spesso in contrasto sia con lo Stato che con la Chiesa. Amava camminare nei borghi poveri dei paesi, dove la gioventù si manifestava in tutto il suo splendore e il «consumismo degli anni Sessanta non aveva ancora corrotto ogni cosa». Così attraverso il suo film d’esordio, Accattone, cerca di portare sulla scena la sua esperienza di vita.

La storia parla di Vittorio Cataldi, un uomo la cui filosofia di vita lo porta a pensare alla vita solo giorno per giorno. Pasolini rappresenta la vita di un sottoproletario senza scrupoli come se fosse un santo, vittima degli eventi e della sua stessa natura debole e umana. Questo viene risaltato da una colonna sonora di musiche religiose che fanno da sottofondo a scene di vita quotidiana. Voleva parlare degli uomini che vivono ai confini delle grandi città, della loro esistenza e di come per loro sia impossibile uscire da quella condizione.

L’utilizzo di attori non professionisti sottolinea come per Pasolini queste persone non fossero rappresentabili se non da loro stessi. Erano dei soggetti “puri”, incontaminati dalla società dell’epoca. Le inquadrature di questi reietti erano composte come nella pittura fiorentina rinascimentale si componevano le immagini dei santi. La religione di Pasolini non si manifestava dentro uno spazio come quello della Chiesa. Era religioso nei confronti della vita e dei suoi misteri. All’interno di una realtà consumistica come l’Italia degli anni Sessanta, Accattone non era solamente moderno ma anche rivoluzionario.

I pugni in tasca di Marco Bellocchio (1965) – Migliori film d’esordio

film d'esordio Amante fin da giovane del cinema, Marco Bellocchio frequentò il centro sperimentale di Roma per poi proseguire gli studi  a Londra. Girò un paio di cortometraggi e un mediometraggio prima di tornare a Bobbio, nella campagna piacentina dove a ventisei anni girò il suo primo film d’esordio come regista: I pugni in tasca.

Bellocchio realizza un film capace di anticipare di qualche anno la rabbia e il fermento che darà origine nei giovani nei movimenti del ‘68. Il tutto con un budget ridotto all’osso e utilizzando come location la casa della madre. La storia segue la vita di quattro fratelli, orfani di padre e con la madre cieca, dalla personalità distorta e ambigua, a tratti cinica. L’insofferenza cresce fino a quando uno dei quattro non decide di eliminare dalla famiglia i propri vincoli malati uccidendoli uno per uno.

Nonostante i pochi fondi, I pugni in tasca si è rivelato essere un film capace di assumere sempre più forza negli anni; rispecchiando generazione dopo generazione i turbamenti delle persone e trasmettendolo con precisione allo spettatore. Dimostra una volontà di non adeguarsi ai modelli dell’epoca e di creare un cinema che rispecchiasse le soluzioni drammatiche alla quale la società si stava avvicinando. L’esordio di Bellocchio è ancora oggi l’esempio che non importano solo il budget in questa industria. Sono le idee forti e il coraggio di rappresentarle fino in fondo a portare avanti il cinema.

La notte dei morti viventi di George A. Romero (1968)

film d'esordio George Romero prima di dedicarsi al suo film d’esordio lavorava nel campo della pubblicità. Raramente un’opera prima ha visto dedicarsi un regista alla cura di ogni aspetto produttivo come invece fece Romero. In La notte dei morti viventi oltre che della regia, si occupò anche della fotografia, del montaggio, della sceneggiatura e della musica.

Traendo spunto dal romanzo Io sono leggenda, questo film si allontana sempre più dalla storia originale sostituendo i vampiri con un altro tipo di non-morti. Barbra e Johnny, in visita alla tomba del padre nella campagna della Pennsylvania vengono aggrediti da questi esseri che causano la morte del ragazzo. Barbra riusce a fuggire e si nasconde in una fattoria. Qui proverà a sopravvivere in compagnia di altre sette persone, indecisa se aspettare i soccorsi o tentare la fuga. Ogni decisione sbagliata è fatale, ogni speranza viene negata.

All’interno del cinema horror, il film di Romero da il via a una nuova rinascita del genere attraverso un approccio realistico, quasi documentaristico. Attraverso la paura lo spettatore deve confrontasi con i temi che preoccupavano gli Stati Uniti negli anni Sessanta. L’insofferenza civile, il razzismo, la scomparsa del nucleo famigliare, la guerra, quella fredda con i sovietici o quella armata iniziata in Vietnam. Quelle elencate non sono più realtà lontane da affrontare con ottimismo. L’horror non è più solo quello dei mostri esterni ma approfondisce i demoni interiori delle persone. Romero mette così a nudo i difetti della società contemporanea dove non sempre il bene trionfa.

Eraserhead – la mente che cancella di David Lynch (1977) – Migliori film d’esordio

film d'esordio Definito dal regista stesso come un «sogno di oscurità e inquietudini», Eraserhead è il film d’esordio di un pittore. Lynch precedentemente al suo primo lavoro aveva realizzato qualche cortometraggio ma non sembrava interessarsi particolarmente al cinema. Cambiò idea quando, durante la realizzazione di un dipinto, iniziò a pensare ai film come alla via per permettere alle sue opere di muoversi.

Da questa premessa possiamo già intuire lo stile innovativo che il regista delinea nel suo primo lungometraggio. Eraserhead è un film dalla trama disarticolata e a tratti onirica, desolati spazi postindustriali e un immaginario nevrotico realizzato attraverso la fotografia in bianco e nero. Un lavoro che tra riprese e montaggio ha occupato cinque anni della vita del regista, nella quale per problemi finanziari perse la casa e fu costretto a vivere nel set, riversando nel suo lavoro ansie e inquietudini della sua quotidianità.

Eraserhead racconta la storia di un tipografo, Henry Spencer, che un giorno scopre di essere diventato padre di un bambino nato deforme. La malattia del neonato porta la madre a scappare e per Henry è l’inizio di un incubo.

La complessità di questo lavoro renderebbe riduttivo qualsiasi riassunto della trama, il senso di disagio e di orrore che provoca ad ogni visione non solo riesce a essere incredibilmente provocatorio, ma nel corso degli anni ha permesso a Lynch di assicurarsi un notevole numero di fan tanto da rendere questofilm un vero e proprio fenomeno di culto.

Toy Story di John Lasseter (1995)

migliori esordi alla regiaLa lista dei migliori film d’esordio sarebbe potuta terminare con moltissimi altri nomi autoriali che dagli anni Ottanta in poi hanno spinto il cinema verso l’attuale lavoro in digitale. È innegabile però che l’impatto avuto da Toy Story nel mondo dell’animazione occidentale sia stato così imponente da rivoluzionarne per sempre il modo di lavorare. Da questo film in poi l’animazione a mano avrebbe sempre più ceduto il passo alla grafica digitale.

Toy story è il primo film girato interamente attraverso questa tecnica, alla cui direzione figura John Lasseter, animatore tra i membri fondatori della Pixar. Lasseter fu uno dei primi a intuire le potenzialità del nuovo mezzo espressivo in seguito alla visione di una scena di Tron costruita interamente al computer. I lunghi tempi di produzione e gli alti costi necessari per portare avanti un lavoro del genere non favorirono in tempi brevi le ambizioni di Lasseter che, dopo numerosi corti, solo nel 1995 riuscì a realizzare il suo film d’esordio.

La storia affronta le avventure di due giocattoli, il cowboy Woody e l’astronauta Buzz Lightyear. Quest’ultimo non ha la coscienza di essere solamente un pupazzo e credendosi un vero agente spaziale andrà a scontrarsi con quella che è la sua vera natura. Attraverso una storia all’apparenza superficiale e adattata per i più piccoli, questo film riesce ad affrontare temi profondi come la consapevolezza dei propri limiti, i problemi dell’identità e la crudeltà legata all’infanzia.

Se il digitale nei primi anni Novanta aveva iniziato ad allontanare la realtà dai film, Toy Story non rinunciava all’inventiva del mezzo cinematografico. Il computer venne utilizzato per creare ombre, profondità di campo e girare le inquadrature in posizioni in cui difficilmente una vera e macchina da presa avrebbe potuto essere posizionata.

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